Sandro Campani è cresciuto a Montefiorino (MO) e vive a Roteglia (RE). Nel 2004 il suo racconto "Le utili abitudini" è stato incluso nell'antologia "Bloody Europe" edita da Playground (www.playgroundlibri.it). Nel 2005 il suo racconto "Cose familiari" è apparso su Linus. Pubblica brani a tema musicale sulla rivista online Writeup (www.writeup.it). Il suo primo romanzo "E' dolcissimo non appartenerti più" è uscito per Playground nel 2005.
• Ascolta satanisti_in_altalena.MP3 (0:24)
Le maestre di un piccolo comune del reggiano hanno passato il primo pomeriggio
d'estate a inventare i bigliettini per la caccia al tesoro dell'asilo.
La notte, poco lontano, alla riunione segreta di una setta di pedofili satanisti
si vergavano su carta le tappe di un oscuro percorso cerimoniale.
Per un curioso caso, due biglietti differenti son stati lasciati nello stesso
albero cavo.
• Ascolta sul_po.MP3 (0:29)
Pochi giorno dopo era sul Po. Giulia l'ha portato con la sua macchina, lungo
le strade basse, fino alla sponda nera. C'era un vento caldo e qualche luce
sparsa. C'era una festa più a Est, dall'altra parte. Si sentiva una
banda. Le isole bianche di detersivo scivolavano sulla superficie dell'acqua,
schiuma densa, che, rompendosi contro il pontile, faceva il rumore di un guscio
che si apre.
"Mi piaci", ha detto lei.
• Ascolta beppe_e_il_gatto.MP3 (0:28)
Una volta Beppe ha investito un gatto e ha fatto l'errore di fermarsi a
guardarlo. Era estate e mezzogiorno, il gatto era rosso striato, sotto il
sole, immobile, le zampe protese in avanti a cercare uno slancio impossibile,
la pancia su un fianco, la posizione di un lungo e piacevole sonno.
Ripartendo, attraverso le ruote e i pedali ha sentito il sangue di quel gatto
salirgli su per le caviglie.
• Ascolta ladolescente.MP3 (0:48)
Quando Adelmo era in quarta superiore, uno dei bidelli si suicidò. Era un tipo stropicciato, che puzzava perché beveva e si lavava poco, e raccontava balle clamorose. Era capace di arrivare il lunedì mattina e dire di essere stato fino a poche ore prima a Montecarlo, a vedere il gran premio da uno Yacht. Il prof di italiano, sedendosi dietro la cattedra, mentre ancora chiudeva il giornale e appoggiava il cappello, commentò infelicemente l'accaduto chiedendo ad Adelmo quando pensava che sarebbe toccato a lui di suicidarsi. In classe nessuno rise, naturalmente, perché nessuno, per quanto disinteressato all'argomento, poteva prendere quella frase come una battuta divertente. Nemmeno lui la prese come una battuta. La prese come una specie di complimento.
• Ascolta trattenere_il_fiato.MP3 (1:38)
Lia camminava sul fondo dell'acqua, a due metri di profondità.
Avanzando a passi regolari, che dovevano essere faticosi ma io dalla superficie
vedevo lenti e misurati, aveva raggiunto la riga blu fra la seconda e la terza
corsia della piscina.
Io non riuscivo a capire come facesse. Poche volte ero stato stupito così.
Tenevo le braccia all'indietro, i gomiti sollevati sul bordo, e vedevo i capelli
di Lia sparpagliarsi verso l'alto, nell'acqua, la sua pelle ancora bianca,
appena olivastra sul collo la schiena e le braccia, intonata al costume. In
piscina non c'era molta gente, e quella che c'era non si curava di noi. Gli
schiamazzi e le semplici parole suonavano lontani, come la voce del Dj di
qualche radio privata diffusa dagli altoparlanti nel prato intorno alla vasca.
La gente in quei giorni preferiva stare in spiaggia.
Lia fece altri sei o sette passi, poi si lasciò spingere dall'acqua
in superficie, prese un grande respiro e mi sorrise.
- È facile.
Io ero sbalordito.
- È facile - rise ancora lei - Dai, prova.
Provai due o tre volte, mentre lei sghignazzava a bordo vasca. Non mi dava
fastidio il modo in cui rideva di me, anzi, mi piaceva.
Mi spingevo a toccare il fondo, tentavo di camminare, ma dopo aver mosso il
piede sinistro, il destro invece che avanzare risaliva, e mi trovavo a sbiciclettare
nell'acqua che vinceva la mia resistenza e mi rimandava su. Non c'era proprio
verso di riuscirci, per me, era una cosa soprannaturale, finché Lia
non mi spiegò il suo trucco. Ma non volle farlo quel giorno, si divertiva
troppo.
• Ascolta gli_spiriti_maligni.MP3 (1:54)
A detta della madre, il mondo era affollato di spiriti maligni. A detta
sua, metà delle donne erano streghe. Ogni donnaccia, ad esempio, con
cui il padre l'avesse tradita, in paese tutti potevano confermare che era
dedita alle fatture. C'era quella di Bercalamagna, quella che faceva i tarocchi,
quella che vendeva le spazzole, con degli occhi grigi senza pupilla che facevano
rizzare i peli delle braccia solo a guardarla.
Erano tutte possedute, per la madre, strumenti di cui il Maligno si serviva
per attirare e smarrire altri innocenti. E quindi, in definitiva, erano gli
spiriti che le avevano rovinato la vita, e non suo marito che era un puttaniere.
- Ma smettila, mamma, per favore.
- Ridi, ridi - diceva lei - Il Diavolo si approfitta proprio di quelli che
non ci credono.
C'erano due donne, ha raccontato, in ceramica con la zia, brutte come la fame,
che s'erano invaghite del capoufficio. Era successo l'anno prima, mica chissà
quando. Le due donne erano andate da una che faceva le fatture, e il capoufficio,
nel giro di una settimana, aveva lasciato la moglie, che era una bella donna,
e i figli, aveva smesso di mangiare e si era ridotto a strisciare ai piedi
di queste due.
C'erano altre due donne indemoniate, nella borgata sotto dal casaro, che erano
mezze parenti, ma non si potevano vedere. In quella borgata le case erano
tutte proprietà delle loro due famiglie. Alla fine erano rimaste solo
ste due donne. Si erano combattute a forza di incendi, finché le case
erano bruciate tutte. L'ultima casa era bruciata con dentro il marito di una,
che era caduto con la faccia nel camino acceso ed era morto nel fuoco.
La madre quella casa se la ricordava ancora, tutta nera e con due mezzi muri
in piedi, e i tronconi delle travi inceneriti.
C'era un via vai di spiriti in paese secondo la madre, che a contarli sarebbero
risultati certamente molto più numerosi dei vivi.
• Ascolta i_ciliegi_baffo_e_i_cani.MP3 (1.58)
Da bambini salivamo sui ciliegi e ci restavamo delle mattine intere. Ci fermavamo quando trovavamo un bego, ma dopo un po' facevamo finta di niente e ricominciavamo a mangiare, come se aspettando dieci minuti i beghi fossero andati via. Eravamo in tre bravi ad arrampicarci, un altro stava di sotto e spezzava i rami più bassi perché era pesante e non riusciva a venire su. Ci andavamo a sdraiare sulle balle di fieno. Ormai anche da noi quelle più piccole squadrate avevano smesso di usarle e c'erano quelle rotonde, tutte ammucchiate in fondo ai campi nei pochi punti in pari, e per noi montarci sopra era il massimo dello sforzo, e ci scoppiava la faccia dal caldo, e ci foravamo dappertutto con le stoppie. Correvamo in discesa facendoci inseguire dai cani. Ce n'era uno che andavamo a stanare in un cortile, che era feroce davvero. Una volta è arrivato dietro a una bambina che era lì con noi, che veniva d'estate in villeggiatura, e prima che lei riuscisse a saltare sulla balla l'ha morsa, ma il mio amico grosso non aveva paura ed è sceso a calciare il cane. Poi sua madre ha portato la bimba da un vecchio che le segnasse la gamba per farla guarire presto. Alla sera al mio amico i suoi gliele hanno date come se il fatto del cane fosse colpa sua, anche se sua madre aveva visto che era stato coraggioso. Ma lui delle botte non aveva paura, e neanche adesso. Ha preso da suo padre. Suo padre da giovane, dicono, che era scappato un toro dal macello e lui gli si era messo davanti e l'aveva preso per le corna, lo aveva tenuto fermo e lo aveva ingiuriato a denti stretti e lo aveva vinto, e gli avevano pagato da bere. Beveva un bel po', ma grosso com'era lo reggeva. È una cosa di famiglia. Bevi del latte, che ti fa meglio gli dicevano ogni tanto, e lui rispondeva: Io comincio a bere il latte quando le vacche mangiano l'uva.
• Ascolta il_nonno_e_il_nipote.MP3 (2:04)
L'estate che il nipote era all'ospedale, immobile nel letto, il nonno lo
andava a trovare per dirgli che faceva male a non pregare, che lui era tornato
a casa a piedi dalla Francia grazie all'aiuto della madonna. Il nipote pensava
che allora il nonno avesse le gambe buone, altrimenti col cazzo che tornava
dalla Francia - poi imparò che il nonno non era mai stato in Francia.
Neanche in Russia non era mai stato. Per non andarci si spaccò un ginocchio.
Alla fine della guerra i partigiani l'avevano preso per fucilarlo, ma poi
fra di loro c'era uno che lo conosceva e il nonno venne risparmiato.
Un dato giorno dell'anno il nonno se ne stava in casa a commemorare la presa
di Addis Abeba. Campava con la pensione della nonna, mentre la sua la metteva
in banca. Tutto il giorno andava in giro a lasciare dei merdai, mele cotte
smangiucchiate sulle sedie, pinzimonio avanzato e sputacchiato, ferraglia
e accidenti dietro casa rubati solo per il gusto di rubare. Rubava la frutta
dai campi e la legna dal ciglio della strada, e le castagne, i marroni innestati,
che fregava anticipando il legittimo padrone della pianta, scuotendo i rami
di notte con un lungo bastone. Vendeva abusive le bombole del gas, a cui da
piccolo il nipote toglieva le guarnizioni per giocare, guadagnandosi frustate
coi rami di salice che il nonno teneva sempre freschi a quello scopo.
A diciott'anni il nipote si era messo a fare il punkettone o il dark o una
cosa del genere in salsa appenninica rurale, e andava in giro con le punte
in testa, dei bagagli di dieci centimetri, e la barba che faceva schifo, ne
aveva poca e si arricciava tutta. Il nonno gli aveva tolto il saluto. A un
certo punto, mandò a dire che gli avrebbe dato centomila lire se lui
tornava normale.
Quando il nipote, per conto suo, smise di farsi le punte, accettò le
centomila lire, perché gli sembrava che quel gesto avesse il fascino
dell'autodistruzione morale. Dopo qualche mese però, non resistendo
all'abitudine, ricominciò a farsi le punte. Il nonno gli mandò
a dire che voleva indietro i soldi.